Teoria dell’interstizio e psicopatologia

Teoria dell’interstizio e psicopatologia
Paolo Cianconi, medico, specialista in psichiatria, psicoterapeuta; C. C. Regina Coeli, Roma
“c’è anche l’avventura nelle regioni disordinate della mente…
oltre i confini della società”
Introduzione
Sappiamo che l’ambiente in cui viviamo è una delle condizioni che interagiscono maggiormente con funzione della mente. Benché ciò sia assodato a livello genetico, non sappiamo ancora molto circa il rapporto tra ambiente e mente. Ad oggi è unanimemente accettato che lo schema generale delle connessioni neurotrasmettitoriali è sotto il controllo genetico ed evolve con i suoi tempi, mentre la crescita e la connettività neuronale sono influenzate anche dagli stimoli provenienti dall’ambiente, dall’esperienza e dalla società. Intuiamo che le variazioni delle condizioni ambientali sono in grado di interessare in profondità gli equilibri sociali (creare crisi o emergenza) e quindi portare disagi e disturbi psichici a livello dell’individuo. Si stanno studiando le forze ambientali, usuali ed eccezionali, che ci coinvolgono oggi. Incontreremo queste stesse forze sia nelle future colonizzazioni extramondo sia nelle trasformazioni dell’ecosistema che il pianeta affronterà in futuro, sotto la pressione antropica. Confronteremo la nostra resistenza ai nuovi ambienti ostili con i circuiti di adattamento che, come specie, saremo in grado di costruire, con o senza le tecnologie. Che il territorio coinvolga la mente è quindi un dato di fatto; abbiamo imparato molto dalla psicologia delle emergenze dopo gli eventi sismici e i cataclismi. Esistono territori che si rivelano faticosi e dannosi per la salute mentale. Essi emergono sia repentinamente, stabilendo inequivocabili condizioni malsane (vedi un terremoto, un’epidemia o un inquinamento) sia mediante una strutturazione lenta, sedimentata in modo caotico, per stratificazione e riorganizzazione. Quello che stiamo per esporre non vuole essere uno slittamento di paradigma sulle condizioni che coinvolgono la mente, ma un voler porre l’accento anche su altre variabili sempre presenti, che però rimangono sullo sfondo perché spesso considerate “fuori di noi” per localizzazione, portata, comprensione.

Antropizzazione e ambiente
Tra il territorio e i suoi effetti diretti sugli individui c’è la società e le società sono da sempre state un filtro per proteggere la nostra specie dalle pericolose variazioni ambientali. La società è uno strumento per piegare l’ambiente alla volontà dell’uomo; questo processo è stato definito storicamente in vari modi: colonizzazione, antropizzazione, addomesticamento eccetera. Le nostre società postmoderne, evolutesi dalla crisi post-industriale, continuano comunque a colonizzare, costruire strutture e scoprire territori, anche non geografici. Modificando velocemente l’ambiente che le circonda, costruendo un ecosistema ormai sempre più misto tra biologia e tecnologie, esse producono comunque un’enorme quantità di effetti collaterali, economie di scarto, disordine. Forse non ci libereremo mai dal ciclo di organizzazione/disorganizzazione; esso potrebbe essere insito nel nostro procedere come civiltà. L. Smith afferma che caos è il nome che si da al meccanismo che crea incertezza in tutti i nostri modelli, e aggiunge che la nostra civiltà è destinata ad avere un aumento della sua incertezza, man mano che avanza verso il futuro. Oggi è lo stato di democrazia l’accettabile surrogato sociale delle leggi naturali. Lo stato democratico si compone di istituzioni ben distinte e connesse tra loro; si tratta di ripartizioni ove si svolgono operazioni specifiche e necessarie che creano i presupposti per la sua esistenza (lo rendono ciò che è). Dentro le istituzioni si creano i cittadini. Il discorso della libertà individuale è oggi oggetto di disquisizione scientifica; è abbastanza accettata la tesi che non sia solo l’individuo a scegliere il suo mondo, tra le possibilità a lui accessibili; il suo ambiente, per come esso è percepito sensorialmente, costruisce il soggetto individuale. La società ha sempre avuto come compito produrre una cultura comune per far sopravvivere meglio il gruppo, renderlo più sicuro e competitivo. Nell’interstizio questo può non accadere. 
Interstizio
Generalmente noi Sapiens colonizziamo per ridurre il livello di insicurezza che proviene dell’esterno delle aree conosciute. Notoriamente il disordine è però anche un prodotto interno delle nostre società. Sin delle fondazioni delle organizzazioni sociali, l’uomo capì che organizzare non era un’azione che si svolgeva “una volta per tutte” e il caos poteva anche riprodursi all’interno della struttura già organizzata. La nostra specie culturale istituisce consuetudini, riti e regole, ciononostante, dicevamo, si genera comunque, agitazione, fermento, inquietudine, depauperamento, decadenza e quindi nuovamente caos. Da sempre, ove l’azione dello Stato è meno attiva, quando c’è meno sorveglianza, dopo il passaggio di un evento catastrofico, si torna all’approssimazione, si vive in modo meno sofisticato, con una riduzione della vita media, riappaiono le leggi tribali e di sopravvivenza, aumenta chi vive di espedienti. La comparsa di vecchie e nuove alternative, genera di fatto, in modo quasi spontaneo, situazioni disordinate ed aree sovvertite o altrimenti organizzate (precarietà, marginalità, carenza dell’assistenza medica, devianza e de-istituzionalizzazione). Questa condizione eterogenea emerge, come un co-prodotto, come un effetto collaterale dalla complessa dinamica stessa che manteneva attiva la società.
Il termine interstitium viene dalla lingua latina e significa proprio stare-tra (inter-stitium), cioè risiedere trovarsi in una situazione non definita, tra due o più situazioni. L’interstizio è di fatto un zona caotica che si rigenera all’interno dei sistemi sociali; una situazione dello spazio inter-istituzionale che riesce a penetrare intra-istituzionalmente. Sono soprattutto le società contemporanee, che vedono i nuovi fenomeni interstiziali opporsi alle loro istituzioni. Il loro recente shift economico verso la postmodernità ne ha aumentato la frammentazione sia dei processi creativi sia di quelli catabolici. Non si può non notare come l’interstizio aggreghi le forme della materia culturale domestica, che poi trasforma in altro. Si ritiene importante per i professionisti conoscere come i sistemi sociali sono infiltrati dall’incertezza interstiziale. Alcuni autori hanno correttamente già introdotto idea che l’interstizio sia utilizzabile come categoria analitica delle società postindustriali: “si tratta di fenomeni generalmente trascurati, ma di notevole interesse per la messa a fuoco di una serie di aspetti e valori emergenti nei sistemi postindustriali”. Oggi ogni cosa che fino venti anni fa faceva riferimento alla linearità (la verticalità dell’ascesa al potere e alla carriera, la sicurezza dei programmi) è in stato di sostituzione da reti orizzontali, oblique e shunt imprevedibili, passaggi nella macchina. L’interstizio post-moderno non è, quindi, quello dei nostri padri; esso assume forme e caratteristiche diverse dai modelli noti nel fordismo (qualità materiali, tempi e spazi). L’interstizio postmoderno ha qualità pervasive e sfuggenti, caratteristiche tipiche anche della frontiera fluida. L’azione organizzatrice della società tende alla demarcazione ed al contenimento delle aree interstiziali, e tuttavia l’interstizialità riesce comunque a corrompere la sicurezza, crea setti, piani e confini interni alla società, di fatto trasformando gli Stati in “terre vulnerabili”. Nell’area interstiziale precipitano i pezzi della struttura psicosociale, quando si scompone e si frammenta. L’interstizialità agisce così energicamente sui nostri sistemi dell’ordine da richiedere nuove definizioni di ciò che noi chiameremmo forma, ordine, istituzione, controllo ed anche salute mentale.
Definiamo interstizio quei territori e quelle condizioni sociali che sussistono in parallelo ai luoghi dello Stato ma dove le comuni garanzie, che tipicamente raggiungono il cittadino, non sono sentite (o sono volutamente evitate). L’interstizio è contraddistinto da uno status di anonimia e da una relativa distanza dalle istituzioni (produce automaticamente le sue leggi di equilibrio), è materialmente scomodo, faticoso, pericoloso e scarso di risorse. Le povertà caratterizzano l’interstizio. Si tratta di povertà strutturali, di ritardi culturali pesanti, da mancata istruzione, da urbanistica sbagliata, da sanità carente, da flusso economico coartato, da ambiente inquinato da scarti, da mancata sicurezza nelle strade, da mancata protezione per le famiglie circa le prevedibili crisi economiche o ambientali, da mancata speranza di mobilità per i giovani, da mancata informazione utile, da mancato cibo salutare, da mancata protezione all’uso dei nuovi strumenti, da mancata sicurezza del futuro. I cittadini che vivono in un interstizio hanno uno svantaggio evidente rispetto a tutti gli altri presenti nello Stato. Si tratta di un’area sociale caotica e mutevole, continuamente in crisi, osservabile anche oggi all’interno dello Stato postmoderno. 
Interstizio e interstizialità: incursioni tra le popolazioni dell’abisso
L’interstizio ha le caratteristiche di una dimensione trasversale, che coinvolge lo società a più livelli, avendo possibilità e facilità di allargarsi a più Stati. Il tempo nell’interstizio può essere istantaneo, impreciso, diffuso, pietrificato. In realtà l’interstizio non necessariamente è un luogo, non è necessariamente stabile nel tempo, non è necessariamente funzionale (serve a qualcosa), non appartiene a qualche realtà particolare, non necessariamente tende all’equilibrio. Tuttavia la sua concretezza è forte. Un interstizio non tratta i suoi abitanti come non-luogo; per chi ci abita o deve stabilirci qualche rapporto sociale può produrre un anonimia disperata, azioni sociali ossessive o coartate. Le relazioni ci sono, anche se possono essere estreme e distruttive. Sono quindi interstiziali soprattutto le esperienze (interstizialità). Benché l’interstizialità si differenzi per la sua evidente discontinuità, per l’eccezionalità, per il classico situarsi al di fuori della norma, spesso gli individui, nella loro vita di tutti i giorni, la sperimentano una coesistenza parallela di normalità psicosociale e anormalità interstiziale. La popolazione dell’interstizio è, infatti, quanto mai eterogenea, considerato che vi accedono vari affluenti sociali; vi troviamo lavoratori, persone semi-garantite, migranti, senzacasa, esploratori dispersi, viaggiatori, tossicodipendenti, SFD, apolidi del transnazionalismo, devianti, disoccupati, pre-adolescenti barricati in casa, giovani adulti in sballo, anziani senza assistenza, malati senza diritto alla cura, malati psichici, vittime di abusi, parassiti, rifugiati e vittime di tortura, disperati della società, famiglie che vivono in automobili, gruppi cacciati dai territori o dal lavoro, working-poor, stressasti dal traffico, operatori abbandonati a se stessi. Tutte queste persone e questi gruppi costruiscono, con il tempo, un loro modo di adattarsi; naturalmente lo fanno utilizzando ciò che oggi l’interstizio offre loro, ai diversi livelli di settorializzazione economica in cui si sta riorganizzando lo stato postmoderno. L’interstizialità manifesta così gli effetti del complesso frangersi delle faglie sociali in movimento nella cultura che tentano di ascendere ai beni, al riconoscimento ed alla normalizzazione, alla ricerca di qualcosa; si evidenziano così i loro fallimenti e le loro disgregazioni ri-precipitanti continuamente nel disordine. E’ da rilevare che non sono solo i più poveri o i più non-garantiti a produrre l’interstizio e a viverci. La postmodernità è piena di giochi che comprendono una adrenalinica quota di rischio, la ricerca di una rottura con il flusso del tempo coerente, con il segnale dello spazio razionale e con la storia ordinaria e i suoi stampi. Molte persone si avvicinano all’interstizialità nella ricerca di riti di iniziazione che compattino in qualche modo il loro disordine psichico. Questa marginalità tipica dell’interstizio e il contatto che quest’ultimo ha con elementi trasgressivi, ambigui, pericolosi lo rende coinvolgente, energeticamente carico ed anche attraente per chi ogni giorno è costretto nella norma e nell’ordine. Permane il rischio di farsi del male o danneggiarsi, soprattutto per chi, come i disperati, non ha mezzi di protezione o possibilità di sorvegliare la situazione di pericolo cui si espone stando in un interstizio. Gli studi ci mostrano che molti, alle prese con le loro necessità di “incursioni fuori dagli schemi”, o anche solo per casualità, per adiacenza o semplicemente perché impoveriti, rapidamente finiscono per l’incontrare, immergersi o lesionasi nella zona interstiziale. Così con questa umanità, che spesso “raschia il fondo” della propria condizione esistenziale e con questo materiale di recupero, si genera l’interstizio. L’interstizio, a differenza dell’istituzione, è un contenitore estremamente ricettivo, flessibile, adattabile e rapido. Ad ogni crisi dello Stato, (o a ogni “frizione” tra i corpi sociali) l’interstizio accoglie nuovi abitanti. Questi sono sia i cittadini che, immiserendosi, scivolano in basso dagli strati sociali immediatamente sopra le soglie interstiziali, sia i gruppi non garantiti che già risiedono in un interstizio. A questi ultimi l’interstizio rinvigorisce la propria miseria, come un onda montante, che sa di destino storico. E’ intuitivo che una popolazione significativa dell’interstizio è quella dei migranti non garantiti. Le migrazioni sono anzi, da alcuni decenni, un affluente importante e un costituente ormai stabile dell’interstizio. I migranti sono costretti ad intrecciare relazioni costanti con spazi contraddistinti da precarietà e incertezza, ma oggi, come loro, sono vi risiedono anche le realtà indebolite della nostra società occidentale. Se una volta i grandi interstizi erano nelle ex-colonie, le recenti crisi finanziarie a carattere economico-speculative che si susseguono dal 2008, hanno avvicinato il bordo dell’interstizio a molti occidentali e ad interi Stati distinti una volta dal welfare. Essendo l’interstizio una condizione diffusa, si può nascere, crescere e morire in un interstizio, senza aver visto altro, sia viaggiando come i migranti sia rimanendo stanziali (come accade agli abitanti delle baraccopoli e delle discariche e ai nostri connazionali nelle aree povere o impoverite). Così mentre cominciano ad esserci lavori che associano la disoccupazione e le crisi economiche a depressioni e suicidi, ci sembra utile riferire un’evidenza descritta dai sociologi brasiliani che hanno studiato le favelas. Il disequilibrio delle grandi aree interstiziali (epidemie di paure, di alcolismo e crack, suicidi ed omicidi) non sembra essere connesso alla povertà in sé, ma alla percezione del dislivello sociale da parte degli individui svantaggiati. Quindi l’ingiustizia (nel suo aspetto legale e morale) entra nell’area di pertinenza della psichiatria sociale. L’interstizio costringe gli svantaggiati a doversi relazionare con i garantiti, perché non si vive altrove rispetto a loro, si vive con accanto a loro. Ciò genera varie condotte di fuga, a seconda delle condizioni sociali e delle fasce d’età. La psicopatologia nell’interstizio incontra fenomeni quali antisocialità strutturale, depressioni reattive con perdita progressiva di vitalità, creazione di mondi magici pericolosi (sette e proselitismi), strutturazione di identità remissive, predisposizione ad uno stile di vita improntato alla mancanza di futuro, scarsa capacità di mentalizzazione, scelte d’impulso e d’istantaneità; “cogli l’attimo” a qualsiasi costo esistenziale (sindromi “scia della cometa”). Gli interstizi agiscono sulla psiche secondo le regole dei sistemi complessi e caotici; gli incontri e scontri sono spesso casuali. Così l’interstizio entra ed esce dalla mente come un onda, generando una sensazione di insicurezza permanente, precarietà, appartenenza a più mondi al di fuori del proprio controllo. I livelli di confronto tra interstizio e intimità psichica devono, per forza di cose, mantenersi al minimo; un individuo deve mantenersi “visibile” il meno possibile ed interagire con la zona interstiziale con estrema cautela. In queste condizioni si sviluppano le future psicopatologie topografiche; persone ridotte a un nessuno-fragile che verranno colpite da mali derivati della loro stessa esclusione dalla mappa privilegiata dei diritti. Si tratta di traumatologia continua che, al lungo andare, avvicina al diventare nulla.
Nell’interstizio c’è una fonderia di identità, una azione plasmatrice caratterizzata dall’imposizione dispotica di stampi predefiniti e pregiudiziali. A chi vive nell’interstizio è applicata una identità dall’esterno (marginale, tossico, vagabondo, straccione, prostituta, immigrato, alcolista, trans, SFD, borderline, giocatore, disoccupato, ecc). Quando si nasce o ci si inabissa in una condizione interstiziale, la stessa percezione delle cose ne viene alterata e con essa anche quella di se stessi e delle proprie finalità.
Sindromi da interstizio – psicotraumatologia
Noi specialisti formalmente siamo chiamati a render conto della salute mentale dei nostri pazienti e nel castello delle sindromi psichiatriche ce la caviamo abbastanza bene; i nostri farmaci sono tra i più sicuri ed efficaci. Il DSM-5 pone una nuova enfasi alle aree del funzionamento sociale dell’individuo, in relazione al trattamento. Questo slittamento sul funzionamento mette in crisi le classificazioni precedenti che si basavano anche sul concetto di sindrome. Se dobbiamo valutare funzionamenti ci viene richiesto di uscire dal territorio protetto e a noi familiare della malattia mentale per doverci esprimere circa ambiti non strettamente di pertinenza della psichiatria. Lo psichiatra deve cioè, sempre di più, occuparsi di quelle aree periferiche che rappresentano zone di slittamento, confuse, magmatiche. Esse emergono dalla trasformazione urbanizzata del mondo e dalla polarizzazione ad imbuto dell’umanità verso le risorse disponibili e il loro utilizzo. Queste aree disorganiche (non lineari) sono la marginalità, le malattie della povertà, la violenza intra familiare, quella del vicinato, l’antisocialità, la galassia compulsiva dei comportamenti tossicomanici, il frantumarsi dei sistemi aggregativi e dei rapporti, la caduta delle resilienze psichiche di fronte alle crisi, le nuove vulnerabilità, le nuove generazioni svuotate con mappe cognitive guidate dal marcato e dell’istantaneità. La psicopatologia, come il resto, fa parte di un ecosistema, e nell’ecosistema c’è l’interstizio. L’interstizio contribuisce a creare, anche transgenerazionalmente, adattamenti disfunzionali, temperamenti inquieti (border), ansie, depressioni, antisocialità, utilizzo di sostanze da strada, abuso di farmaci. Diverse aree psicologiche sono sottoposte al flusso di elementi con effetto degradante sulla salute mentale; questi elementi provengono dai situazioni territori interstiziali (e anche da quelli di frontiera). I nostri presidi, i SERT, i Sim e i DSM, le carceri, i consultori con non grandi risorse, incontrano l’interstizio ormai ovunque, là ove esso spinge la popolazione verso l’emergenza psichica. La famosa area della doppia diagnosi oggi sembra un paradosso, quella della caratteropatia più che un’anomalia interessa interi strati sociali. Vediamo quali strumenti abbiamo allora per discutere di ambiente e psicopatologia. Stress. In psichiatria il concetto di  
stress, inteso come tensione cui è sottoposto un individuo, una comunità o un sistema, potrebbe a breve non essere più sufficiente per giungere a conclusioni di causa ed effetto; figuriamoci il vago e indefinito concetto di resilienza: spiega tutto e dice niente. Disturbo dell’Adattamento. Il costrutto di Disturbo dell’Adattamento potrebbe non essere più in grado di descrivere l’ampia reattività all’ambiente che cambia (pensiamo alle crisi economiche, alle crisi climatiche, alle guerre a bassa intensità, alla povertà di risorse) e relativi danni psichici. Il Disturbo Post Traumatico da Stress. Interessante paradosso. Legalmente non è ancora riconosciuto che l’ambiente (per esempio un epidemia di AIDS, la povertà endemica, la vita in una discarica) possa creare un tale disturbo per cui richiedere lo status di rifugiato. Le nazioni sono pronte ad accogliere il numero imprecisabile di rifugiati climatici con Disturbo Post Traumatico da Stress, dopo una vita in un interstizio? La Depressione. La macchia nera delle depressioni (reattive), annunciata dal DSM-5 (che è previsto raggiungere livelli di percentuale enormi nella specie) sembra più che una patologia una denuncia di sconfinamento. E quindi ecco il territorio e noi sconfiniamo oltre cosa? Nessuno se lo chiede più. Il concetto di superamento della fisiologica unità di carico umana e ambientale non è presente nelle diagnosi; il DSM-5 si è guardato bene dall’affrontare alcuni di questi temi centrali che sarebbero stati a dir poco denunce rivoluzionarie. Nel frattempo le aree interstiziali segnalano territori insicuri, bandiere rosse di acque inquiete per la salute mentale, ove l’adattamento è difficile. Dobbiamo occuparci noi, da soli, di questa umanità? Ce la possiamo fare senza una riflessione sociale più ampia? Chi o quale disciplina deve far partire la riflessione generale, azzardandosi oltre il proprio orto? Con quali strumenti, se non scientifici e multidisciplinari? Ad oggi il problema delle salute mentale è una “bomba ad orologeria” pronto a scardinare qualsiasi sistema sanitario (C. Mencacci 2013)

Conclusioni
Per comprendere queste tematiche e costruire un saper-fare bisogna porsi al lavoro verso i territori critici come gli interstizi e le interstizialità con un approccio multidisciplinare, visto che essi si situano all’incrocio tra complessità e organizzazione possibile. In tutto ciò la psichiatria, come altre discipline, sta attraversando una fase di confusione (anche se questo genera di grande fermento di ricerca). Ciò non riguarda unicamente l’approccio categoriale e gli strumenti di osservazione e studio di cui disponiamo. Il nostro paradigma si muove, coinvolgendo gli obiettivi, i range di ciò che sia patologico e di cosa non lo sia, i confini di intervento su cui la psichiatria deve esprimersi; campi dai contorni quanto mai ambigui, meticci, mescolati ad altri fattori di cui la psichiatria non si era mai prima interessata.
“…Questa incertezza e confusione probabilmente persisterà per qualche anno…” (M. Maj, 2012).
Questo articolo è parte del libro “Sindromi psicosociali”; Cianconi prossima pubblicazione Franco Angeli
Per info: pcianco@gmail.com
Bibliografia
Augè M., Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1993).
Bor, D. La Voracità del cervello, ed Castelvecchi Lit. Roma 2012
Cianconi P., Addio ai confini del mondo, ed Francoangeli, 2011, Milano
Calzolaio V., Ecoprofughi, ed NdA Press 2010 Rimini
Dal Lago A., Non-persone Universale Economica Feltrinelli, 1999 Milano
Duglas M., Purezza e Pericolo,(1966) ed Il mulino Bologna 1993
Espinheira G., Sociedade do Medo, ed EDUFBA, 2008 Salvador (Br)
Gasparini G., Interstizi e universi paralleli, ed Apogeo 2007
Gazzaniga M., Chi comanda?, ed Codice Torino 2013. (Tit. orig: who’s in Charge? Free will and the Science of the brain 2011)
Maj M., From “madness” to “mental heath problems”: reflections on the evolving target of psychiatry. World Psychiatry oct 2012, pag 137,138, ed Elsevier Milano
Mencacci C. Quali interventi per quali pazienti? La gestione del suicidio in ambiente psichiatrico. Giornata Mondiale per la prevenzione del Suicidio. Roma 10 settembre 2013
Khun T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, (1962) ed Piccola Biblioteca Einaudi, torino 2009

Smith L., Caos, ed Codice ed. Pag. 4, Torino 2008

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *