Un maestro, tale Sanatkumāra se ne stava beatamente disteso in un’alcova di legno intarsiato ricoperta da morbidi guanciali e sete preziose, il suo corpo bronzeo, luccicava al sole per via degli unguenti dei quali era cosparso, la sua anima ardeva di recitazione interiore, il suo ventre giaceva appagato. Nell’istante in cui i due fuochi si riconobbero, s’accese in cielo il lampo dell’affinità elettiva che brulicò un fervore di mille faville tra i rami dell’albero del Manas, e il maestro rivolgendosi a Luis, nel bagliore di cristalli in fiore, lo apostrofò nella maniera seguente: «Vieni da me con ciò che tu sai».
Luis, zitto per la bizzarria sorprendente della richiesta, ma effervescente feconde risonanze col campo che lo circondava, pensò il flusso intuitivo più copioso che poté.
Tentò di raccogliere in una summa, essenziale ma accurata, la marea montante di comprensioni di cui era stato soggetto in tempi recenti, si adoperò con la perizia del pensatore a riconvertire il caos raffazzonato delle acquisizioni in precise, lineari sequenze logiche. Pur graziato, faticò, ma invano.
«Tutto ciò che hai indicato non è altro che nomi», tagliò corto Sanatkumāra, inanellando da quel momento in poi una sequela impressionante di dualismi che susseguendosi lungo una spirale evolutiva ascendente si trascendevano e includevano senza sosta. La conoscenza, Veda, lasciava così il posto a Vāc, parola in quanto «colei che tutto penetra e a cui nulla può negarsi ». Parola a sua volta era sottomessa a Manas, la mente, la quale cedeva però il passo ai suoi modi, primo tra tutti l’intento, Samkalpa, « l’impulso primo che muove il dispiegamento di ciò che è ».
Muove la terra, il cielo e l’altre stelle estendendo così la giurisdizione della mente ben oltre il microcosmo individuale per raggiungere la totalità del cosmo e di tutti i suoi elementi, quelli che diverranno poi gli esseri senzienti del buddismo o i diecimila esseri del taoismo, o ancora le creature di san Francesco.
Ma l’intenzione rappresenta solo il prodromo del risveglio, la consapevolezza, Citta, è ben più dell’intenzione essa è l’atto di accorgersi, l’arte della quale i rsi son maestri, in quanto sorveglianti del mondo. Essi, eternamente desti, trascendono Citta in Dhyāna, la meditazione, giacché la terra e le acque, gli dei e gli uomini, in un certo modo, meditano e: «coloro fra gli uomini che raggiungono la grandezza sono, in certo modo, partecipi della meditazione». La potenza successiva alla meditazione si configura come discernimento, vijnānana, trasceso nella forza, hala; oltre la forza il cibo, anna, oltre il cibo tejas, le acque, oltre le acque lo spazio, ākāsa, oltre lo spazio smara, la memoria, oltre la memoria prāna, il soffio.
Il soffio? Luis impallidì al pensiero delle soglie, ineffabili che si schiudono quando il respiro scompare. E dal cilindro del soffio Sanatkumāra estrasse, ineffabili, ulteriori percorsi, che ricorsero per la seconda volte alla mente, manas, ma questa volta nel suo versante di Verità, discernimento del pensiero che conduce alla fede, shraddā.
Ma la fede è nella pratica perfetta, tapas, il sacrificio e i sacrificio nella gioia, sukha, e la gioia nella pienezza, bhūman.
E di Luis si poteva dire che fosse sorretto dalla grazia, come il bimbo il grembo materno, beato e sciallo, assisteva alla sfilata delle potenze, con calma olimpica, tanto da reggere la sorpresa che stava per arrivare con intatta presenza.
Si perché con perfetta scelta di tempo Sanatkumāra, fa seguire alla pienezza niente meno che sua maestà l ‘Ego, o meglio ahamkāra, ciò che millenni più tardi la psicologia occidentale identificherà con l’Io. Egli così si esprime: « l’io è in basso, è in alto, è a ovest, è a est, è a sud, è a nord, l’io è tutto questo».
E di nuovo il pensiero di Luis andò alla condanna della Verità e al suo cruccio della dimostrazione scientifica, ma non si scoraggiò perché quello era i luogo dove nessuna forma di scoraggiamento era prevista. Non si scoraggiò ed ebbe l’insight che gli prefigurò lo scenario definitivo. Luis sentì tutta la potenza dell’Ego nelle sue viscere, ne subì tutto il fascino, ne bevve fino all’ultima goccia, si saziò di potere e gloria, raggiunse gli apici più acuti dell’illusione di Sé, venne fatto a pezzi e divorato dalle sue fauci fameliche, urlò tutto il suo terrore, tremò tutti i brividi del più gelido l’inverno e vide. Vigile, si accorse della tentazione di Lucifero, della vanità del Reale, della tremenda, quasi irresistibile tentazione dell’Io, talmente simile al Sé da coincidervi. Ecco dunque la meta, la meta che non c’è, il termine ultimo, l’ātman, il Sé.