Lo Spirito del gruppo
di Claudio Tomati
“Cattell usa il termine syntality per individuare la qualità di un gruppo come analoga alla personalità di un individuo. Lewin concepisce il gruppo come un campo di forze organizzato (ovvero una ‘totalità di fatti coesistenti psicologici che vengono considerati come reciprocamente interdipendenti’ – nota mia). Nel modello Johari un gruppo può relazionarsi ad altri gruppi in un modo simile alla modalità di relazione tra individui (…) In un certo senso i gruppi si comportano come individui (…) Qualsiasi qualità ascritta a un individuo può essere ascritta a un gruppo”.[1]“(Un’idea guida è) che il gruppo costituisca un insieme, una comunità, un collettivo, capace di pensiero e di elaborazione emotiva. (…) Che il pensiero del gruppo operi su elementi appartenenti a uno ‘spazio’ o ‘campo comune’, (…) un ‘luogo’ in cui prendono forma fantasie ancora indeterminate, uno ‘speciale spazio o contenitore relazionale e mentale’ in cui si realizzano trasformazioni emotive ed operazioni di pensiero. (…) Che l’analista e il gruppo debbano apprendere a pensare in termini di difficoltà che si manifestano nel campo del gruppo e non in quello di ciascuno dei partecipanti”.[2] (il corsivo è mio)
Se ai primordi della terapia gruppoanalitica il lavoro veniva visto come una “analisi nel gruppo” dei singoli pazienti, “Bion e Foulkes operano il passaggio da una visione che considera il gruppo come un certo numero di persone riunite (una pluralità tenuta insieme da un capo o un ideale) a una visione che valorizza la sua unità. Bion ha sviluppato questa idea partendo da K. Lewin e dalla Gestaltpsychologie (‘il tutto è diverso dalla somma delle parti’)”. Per Foulkes “il gruppo come un tutto non è un modo di dire, è un organismo vivente, a prescindere dagli individui che lo compongono”, una vera e propria entità psicologica, dotata di “umori e reazioni, uno spirito, un’atmosfera, un clima. A questo proposito parliamo anche di matrice e di rete di comunicazione, non solo in senso interpersonale, ma più propriamente transpersonale e sovra-personale”. “Foulkes concepisce il gruppo secondo un modello di rete. Ogni nodo può essere immaginato come una persona, che è collegata tramite un legame (una relazione) alle altre persone e alla rete nel complesso. La rete, infatti, non è una semplice somma di relazioni a due, ma è dotata di caratteristiche d’insieme, diverse da quelle dei legami”. Così, “i disturbi somatici e psichici non sono semplicemente una funzione della personalità dell’individuo, neanche nel loro aspetto sintomatico, ma sono una funzione di un intero plexus, di una intera rete di relazioni tra parecchie persone. (…) Soggiacente alla rete vi è la matrice del gruppo da cui la rete promana. Foulkes ne propone una definizione generale: ‘la matrice è il termine comune a tutti i membri, da cui dipendono in definitiva il significato e l’importanza di tutto ciò che accade nel gruppo (…) Diviene evidente la dimensione generativa del gruppo, il suo essere contenitore di elementi ancora non individuati, che possono prendere forma”.[3]
Emerge dunque che luogo del lavoro di gruppo è il campo in cui si sviluppa lo Spirito posseduto dall’organismo che è il gruppo, dotato: 1) di una propria cultura e di proprie norme e rituali; 2) di una propria intelligenza – che chiameremo cointelligenza– e sincronicità tra le sue parti – gli eventi transpersonali; 3) di specifiche ombre.
Come lo Spirito di ogni individuo, anche lo Spirito del gruppo non chiede che di essere liberato, per dispiegare appieno il seme che è trasformandosi nell’albero imperfettibile che esso contiene come sogno. Il gruppo nella fase iniziale è dunque il seme che ha già in sé l’immagine finale – l’immagine della fratria, del cerchio dei liberi, fratelli ed eguali – con una sua irripetibile unicità, perché “Dio non ripete mai le cose due volte”. Parliamo dunque di una vera e propria vocazione del gruppo, vocazione che chiama a sé e il cui richiamo il gruppo segue, al di là della volontà di chi lo conduce, il quale “deve seguire il gruppo, guidarlo verso la sua meta legittimae aiutarlo a far fronte agli elementi distruttivi e autodistruttivi, rendendo idealmente questi ultimi non necessari. Perché il leader possa svolgere bene la sua funzione è importantissimo per lui riconoscere e rispettare i confini dinamici della situazione, sapere e accettare ciò che si può o meno fare e dire nelle circostanze da cui deriva e viene definito il suo stesso mandato”[4] (il corsivo è mio).
E dunque questi non può che favorire il processo di liberazione dello Spirito del gruppo in direzione della piena realizzazione della vocazione: “lo Spirito vuole liberarsi, per andare verso il centro, l’unità, l’armonia. E’ lo spirito ad attuare il processo. Non devo che riconoscerlo e conformarmi a ciò che è”:[5] e dunque, come sempre, padronanza del transe nel contatto e nella persistenza del contatto di fronte all’agguato, attuazione dei quattro riconoscimenti, integrazione di corpo, respiro/voce e visione.
Cultura del gruppo e genius loci
Il gruppo sviluppa necessariamente una propria cultura, ovvero struttura, norme e valori propri, appropriata ai suoi bisogni e propositi: “l’abilità di un gruppo di creare norme e regole appropriate i propri bisogni e scopi è importante per la sua efficienza e per il benessere dei membri (…) La reale sfida per un insieme di persone che hanno un lavoro da svolgere o bisogni da soddisfare, è quella di sviluppare una struttura di consuetudini. Proprio come se fosse un bel vestito, un complesso di abitudini si adatta a un solo gruppo. La struttura renderà il gruppo capace di funzionare bene, di raggiungere gli obiettivi fissati e di ricavare soddisfazione dai propri sforzi”.[6]“Le norme sono gli atteggiamenti, i valori e le forme di comportamento che sono approvate e accettate dal gruppo. Basta questa definizione per capire che le norme stabilite da un gruppo sono decisive per la possibilità che ha esso di raggiungere i suoi obbiettivi. L’interazione tra i membri mirerà perciò in gran parte al sostegno e al riconoscimento della rispondenza alle norme o alla critica e al controllo della devianza. (…) I membri si impegnano – talvolta con la massima energia – al rafforzamento delle norme, anche se queste non sono forse mai state stabilite, poiché comunque rappresentano il comportamento e gli atteggiamenti necessari per il raggiungimento degli obbiettivi del gruppo (…) A questo punto, però, bisogna fare delle importanti riserve. La crescita personale non è mai facilitata dalla sottomissione assoluta al controllo del gruppo. Il mutamento integrato e produttivo non può essere ottenuto dai membri di gruppi in cui la pressione normativa sostituisce altre tirannie e repressioni. L’importante nozione dell’individualizzazione nel gruppo mette in rilievo il fatto che ogni membro deve trarre la sua soluzione dal gruppo, adattata ai suoi bisogni, risorse e modi di vita personali, piuttosto che tentare di raggiungere qualche ‘soluzione’ collettiva che non tenga conto dei bisogni individuali e sia valida per tutti. Perciò, le norme del gruppo, oltre a essere pertinenti, devono essere anche flessibili”.[7]
Rispetto alla cultura del gruppo, il conduttore, “quando emergono o vengono stabilite norme pertinenti agli obbiettivi del gruppo, si impegna ad aumentare la loro consapevolezza e a rafforzarlo. Al contrario, quando sono stabilite o emergono norme irrilevanti e restrittive, accetta in parte la responsabilità di aiutare il gruppo a trovare criteri più produttivi di sostegno e identificazione reciproca”.[8]
Il conduttore da un lato ha un importante ruolo, attraverso il proprio stile, nella formazione della cultura del gruppo, dall’altro e reciprocamente ne è influenzato e “segue” la cultura che si è creata eventualmente intervenendo, come sottolineato qui sopra da Heap, in un dialogo costante tra sé e quello che Neri chiama il genius loci del gruppo, l’antica divinità romana protettrice di determinati luoghi, la quale “aveva un particolare rapporto con l’armonia del posto. Presiedeva alla buona relazione tra i diversi elementi: acque, venti, vegetazione, costruzioni ecc.. Si irritava, se le caratteristiche e specificità del luogo venivano alterate da azioni e gesti non in accordo con la sua natura”.[9]
E’ il genius loci il garante dell’identità del gruppo, e dunque del processo verso l’obbiettivo. Esso, attraverso un’opera di tessitura interna e segreta, ” ha il compito di animare o rianimare l’identità del gruppo, di collegare il progresso del gruppo con la sua base affettiva. Il Genius loci ha quindi anche il compito di evitare il divenire sclerotico del gruppo e la sua eccessiva istituzionalizzazione. La funzione del Genius loci, inoltre, è quella di evitare lacerazioni, ferite nell’identità sincretica dei membri e, nello stesso tempo, consentire che la situazione del gruppo evolva”.[10]
Rispetto al conduttore, Neri sottolinea che “la figura del Genius loci e quella del leader del gruppo non coincidono. Il leader del gruppo di lavoro è un ‘responsabile operativo’. Il Genius loci è una figura di riferimento affettivo. Il leader del gruppo a finalità analitica è in rapporto con la verità e la conoscenza. Il Genius loci con il patrimonio affettivo del gruppo, la sua vitalità e freschezza. Il leader ha la funzione di indirizzare il gruppo nello svolgimento del compito. Il Genius loci ha la funzione di inventare le forme dello stare insieme: forme che riescono ad attivare lo ‘spirito del gruppo'”, quello spirito che il conduttore deve cogliere per porre la giusta domanda al giusto nume. “Ciò significa scegliere – a seconda del momento e dell’opportunità – il raccoglimento, l’allegria, il dolore”[11].
Cointelligenza ed eventi transpersonali
Insieme cadiamo, insieme ci alziamo, potremmo dire. Insieme ci “abbruttiamo” in discussioni senza senso, abitudini, proiezioni, giochi (nel senso usato da Berne), e insieme accendiamo il fuoco sull’altare e trascendiamo. Così come esiste il proverbio romano senatori boni viri, senatus mala bestia, esiste anche il proverbio russo per il quale “il mujik è stupido, ma il consiglio dei mujik è intelligente”.
Abbiamo visto come il ruolo del conduttore consista, principalmente, nello spezzare il cerchio dell’abitudine all’assenza da sé che precipita stando fermi (come diceva Ignazio di Loyola: dove sei quando non sei presente a te stesso?) avviando la spirale dell’evoluzione nella consapevolezza della presenza attraverso la formulazione dell’intento. Come conseguenza dell’accensione di questa scintilla viene ad attivarsi un campo unificato di cointelligenza, che è qualcosa di diverso dalla semplice somma delle intelligenze individuali: “il concetto di apprendimento organizzato si riferisce alla capacità di complessi organizzati di sviluppare conoscenza esperienziale, istinti, e ‘abilità di sentire’ o intuizione maggiori delle conoscenze combinate, abilità e istinti degli individui coinvolti”,[12] in quanto “l’intelligenza dipende dal contesto, dal fine, e dalle richieste che la vita ci fa, e non dal QI, da una laurea o da una reputazione prestigiosa”.[13]
Come nella performance rituale yoruba, dove “i performer mettono abilità contro abilità e cercano di trascenderle, ogni partecipante gareggia per ottenere l’attenzione, contribuendo al rapido corso degli eventi, insieme iniziando l’azione e rispondendo a quella degli altri competitori”,[14]sorge così una “competizione collaborativa” in cui ad ogni elemento di intuizione colto ed espresso da uno dei membri si aggiunge, in una scala a salire di continuo interscambio, quello colto ed espresso da un altro membro. Questo elemento è quello e non può che essere quello, tappa necessaria sulla via della liberazione dello spirito: l’insight, l’esperienza “aha!” ci sorprende e ci stranisce proprio perché giunge nella forma giusta nel momento giusto.
Passati gli agguati, le “colonne d’Ercole” si arriva così insieme a un plateau armonico di continua e luminosa risonanza, nel quale, se si persiste nel contatto con il Sé transpersonale che trascende il Sé personale, si possono verificare telepatie, sincronicità, connessioni non locali, eventi transpersonali. Insieme ci si abbevera alla fonte dell’amore eterno, insieme si coglie la “regia celeste” che fa pronunciare la parola giusta e compiere l’atto giusto al momento giusto per rispondere alla domanda posta interiormente dal compagno; insieme si riconosce il “Tutto che è Uno” che mostra l’illusorietà del confine, della separazione, fonte ultima di ogni male; insieme si veleggia verso un’ulteriore perfezione, insieme si coglie il mistero ineffabile che sorprende e commuove, si coglie il campo comune che trascende la persona e la sua solitudine – la ferma visione dell’Uno.
Ombre
Insieme si naviga attraverso le Ombre, delle quali occorre sviluppare la massima consapevolezza: “la loro coscienza (degli anziani) disse loro che se cercavano conoscenza e saggezza, questo sarebbe avvenuto lungo sentieri accidentati, ori oke on petele. Ciò significa che se vogliono adempiere al loro destino, devono percorrere il sentiero attraverso la terra, le colline, l’acqua, le spine, i guai. Devono passare tutte le sofferenze per poter compiere il proprio destino. E se riescono a fare questo, sono sicuri di giungere in un luogo santo”.[15]
Il percorso segue dei ritmi musicali e drammaturgici archetipici, come i viaggi iniziatici della tradizione (si pensi per esempio al viaggio di Giasone e dei suoi compagni sulla nave Argo alla ricerca del vello d’oro): entusiasmo e timor sacro dell’avvio, fiuto del pericolo, agguato, superamento, arrivo e celebrazione. E’ come se il vascello del gruppo venisse attaccata da mostri, incappasse in tempeste, finisse nelle secche, rischiasse il naufragio per lotte intestine eccetera, e insieme gli “eroi” uscissero da questi “guai” rafforzandosi e apprendendo. Il cerchio fornisce l’indispensabile supporto, la rete di protezione.
Va innanzitutto ricordato che le ombre non sono mai “personali”, e che “ciò che è tuo è anche mio”, con differenza di grado, di modo, di risoluzione: le ombre non ci appartengono, piuttosto ci attraversano, ci possiedono, mentre il mio centro, il mio Osservatore, resta incontaminato e, nel momento in cui pongo in esso la mia coscienza, e non nei materiali che mi attraversano, può avvenire la transidentificazione dall’Ombra. Questo riconoscimento è il primo passo verso la guarigione, nonché la base delle varie tecniche biotransenergetiche di captazione e cura. Da questo punto di vista, il fatto che in un lavoro di gruppo – in un qualsiasi lavoro di gruppo – ci si trovi a confrontarsi con altre persone portatrici di ombre analoghe, è, come abbiamo visto, terapeutico in sé.
In un certo senso, possiamo dire che la persona che soffre, soffre a causa della sua maggior sensibilità e ricettività ai demoni che abitano il plexus, famigliare o sociale, con cui non riesce a trattare e da cui viene predato, nel momento in cui non è nel proprio centro di consapevolezza, là dove l’Ombra si dissolve nell’archetipo, in quanto, se questi demoni assumono aspetti cronologici, il loro substrato appartiene all’inconscio collettivo senza tempo: le ombre sono ombre di archetipi, sono aspetti disarmonici o poco evoluti di archetipi, e la cura avviene dunque nel ricondurre l’Ombra al proprio archetipo – la donna fredda e insensibile alla Madre che ama tutti i suoi figli, il giovane rabbioso e aggressivo al Guerriero che riconosce l’azione giusta e non teme di compierla, l’anziano rancoroso e cinico al Senex compassionevole e latore di messaggi dall’astrale – mercé la transidentificazione, il “resto e osservo” compiersi il processo di progressivo disvelamento dell’archetipo sottostante l’Ombra nel contatto/persistenza del contatto, passando le varie fasi descritte da Grof.
Partendo da un fragmento personale, un sintomo espressione dell’Ombra, possiamo dunque giungere in profondità e portare luce dissolvendo così l’Ombra mercé l’insight, lo spalancarsi della porta su una nuova, più profonda e vera stanza, più vicina alla realtà ultima, riconoscendo via via che le nostre angosce non sono solo “nostre”, ma sociali, e infine che non sono solo sociali, ma transpersonali-mitologico-iniziatiche.
Rispetto al gruppo, come scrive Foulkes, “a un livello arcaico, molto profondo, il gruppo rappresenta la madre. Ad altri livelli rappresenta ogni genere di cosa in momenti diversi e per pazienti diversi, molto spesso una specie di Super-Io, un’autorità temuta e che tende a criticare. Mi è divenuto chiaro, soprattutto negli anni recenti, che questa ripetizione è il modo in cui la nevrosi individuale di Transfert si stabilisce nella situazione di gruppo. E’ un evento regolare e contiene sempre la chiave dell’aspetto fondamentale e individuale della nevrosi del paziente”.[16]Potremo affrontare le ombre che emergeranno nel lavoro di gruppo come ombre transtemporali – ovvero ombre che si diffondono nel campo del gruppo, ma che hanno origine fuori dal gruppo – oppure come ombre specifiche del gruppo, ombre qui e ora.
Le ombre transtemporali sono una sorta di incantesimo o “maleficio” portato da fuori, la cui diffusione, scrive Neri, “avviene anche tra individui e gruppi distanti nello spazio e nel tempo. Ad esempio, tra la famiglia di origine di un partecipante, o un collegio in cui è vissuto da bambino, e il campo del gruppo. E’ anche possibile la diffusione attraverso più generazioni di una famiglia: diffusione transgenerazionale. (…) Ciò che viene trasmesso abitualmente per diffusione transtemporale è una modalità di ‘stare insieme’, un certo modo di percepire se stessi, (…) ad esempio la noia che regnava e teneva unita la famiglia; oppure un tratto di sofferente nobiltà che colorava tutti i loro atti; o ancora la bugia e l’ipocrisia che permeavano ogni rapporto e ogni pensiero. (…) Il risultato della diffusione di questi ‘elementi’ è che due campi che possono essere molto diversi tra loro – ad esempio, il campo della famiglia di origine di un paziente e il campo del gruppo – si trovano ad avere uno o più elementi comuni (invarianti) ed in un certo senso vengono assimilati”.[17]Così, non verrà riconosciuta la novità del gruppo, ma lo si vivrà proiettandovi sopra l’immagine del proprio plexus: “siete indifferenti a me e alla mia sofferenza così come lo sono tutti” è una tipica visione frutto di questo incantesimo radicato profondamente nella persona e più forte dei dati oggettivi esterni. Tanto più che “gli elementi che vengono diffusi in modo transtemporale hanno spesso caratteristiche virali, nel senso che utilizzano le forze dell’ospite, in questo caso il gruppo, distorcendo la comunicazione. Il rancore, la disperazione e la colpa, ad esempio, non utilizzano soltanto le proprie forze, ma le moltiplicano attraverso una polarizzazione del ‘campo mentale’ del gruppo che esclude la presenza mitigativa di altri sentimenti”.[18]Ovvero, come scrive Foulkes, “la famiglia originaria è stata internalizzata e viene riportata alla nuova situazione di vita e, in modo particolare, nella situazione di transfert, durante il trattamento analitico”, e lo stesso conduttore può essere indotto ad assumere atteggiamenti del genitore del membro.[19]
Profezie autoavverantesi: se voglio farmi rifiutare perché così prevede il mio “copione di vita”, ci riuscirò.
Ma “la diffusione delle ‘qualità patologiche’ nel campo analitico è un momento in cui il paziente cerca di affrontare, con l’aiuto dell’analista e degli altri membri, qualcosa con cui sino a quel punto ha dovuto fare i conti da solo”.[20] Una richiesta di aiuto. A volte può rendersi necessario destrutturare questo aggregato affettivo-cognitivo difensivo e paralizzante che opera in modo nascosto bloccando il gruppo attraverso le sue ideologie, i suoi costrutti verbali e le sue strategie difensive: Neri ricorda come possibilità l’happening e il brain storming. In Biotransenergetica esistono varie tecniche per attuare quello che è stato definito lo “scuotere l’albero degli Exù”, il “gran ballo degli Exù”: efficace è ad esempio il confronto “occhi negli occhi” con un altro dei membri del gruppo, un membro con cui sia iniziata una dinamica conflittuale significativa, per esempio, e il progressivo disvelamento delle maschere, della sofferenza, per l’emersione infine, dopo un processo catartico, del vero Sé celato nella profondità con i suoi reali bisogni. Un’altra modalità è l’incorporazione della propria Ombra, l’agire “come se” si fosse la propria Ombra, portandola così alla luce, riconoscendola e insieme disidentificandosi da essa (sulle tecniche usate in Biotransenergetica vedi la parte B di questa Discussione).
Neri conclude ricordando che “la destrutturazione di un preesistente assetto del gruppo implica sempre sentimenti di perdita e di smarrimento. Se però si tollera lo smarrimento e la confusione sufficientemente a lungo – continuando ad associare e pensare – emergeranno nel gruppo una nuova direzione e un nuovo senso (…). Quando sarà stato, almeno in parte, destrutturato e reso più duttile il ‘campo patologico’, l’analista potrà dispiegare, insieme a questo membro e agli altri partecipanti, un campo che per le sue caratteristiche consenta la vita, gli affetti ed il pensiero”,[21]cosa che nel lavoro di gruppo in Biotransenergetica può avvenire nella pratica Exù/Oxala, dove, una volta “giunti al fondo della notte”, è lo Spirito stesso, finalmente liberato dalla prigionia dell’Ombra, a irradiare la luce che consente la vita.
La Luce non ha mai cessato di esserci: eravamo noi a “essere da un’altra parte”, prigionieri di un’illusione. Ora ritroviamo la nostra naturalezza, mettiamo in movimento ciò che era fermo, usciamo dal transe cronicizzato riprendendo la libera navigazione dell’oceano della coscienza – in definitiva, attraverso l’Ombra abbiamo incontrato e risvegliato noi stessi.
Possiamo altrimenti vedere le ombre che appaiono nel campo del gruppo come ombre “qui e ora”: “se l’analista considera il gruppo come ripetizione di un modello familiare (…) e se vuole applicare in questo contesto operativo i concetti, propri della psicoanalisi, di identificazione, rimozione, resistenza, formazione reattiva, fissazione sarà certamente in grado di identificare la presenza di tutti questi meccanismi nella dinamica di gruppo, ma perderà la possibilità di cogliere gli aspetti originali e specifici della situazione. Se viceversa prende direttamente in considerazione il gruppo ed impiega modelli elaborati a partire da questa esperienza, avrà la possibilità di fare una serie di osservazioni del tutto nuove, che getteranno una luce anche sui meccanismi operanti nella stessa situazione individuale”.[22]
Il gruppo è, come abbiamo visto, un organismo in sé, al di là dei singoli contributi dei membri. Scrive Neri: “l’analista e i membri del gruppo devono apprendere a pensare in termini di difficoltà che si manifestano nel campo del gruppo e non in quello di ciascuno dei partecipanti”.[23]Aggiunge Luft: “la ricerca delle cause del lento progresso e delle ragioni dell’inefficienza dovrebbe essere fatta a livello di gruppo e non di individui singoli: infatti l’approccio più efficiente alla diagnosi dei problemi risiede nella comprensione dei processi di gruppo in generale e degli stadi di sviluppo in particolare (…) Trascurare i processi di gruppo in favore di una esclusiva attenzione individuale può produrre tempi morti, opportunità mancate e un inefficace apprendimento”.[24]
Abbiamo visto che può esistere una vera e propria interazione distruttiva (il “precipitare da fermi”) che si autoalimenta. Questo può valere per quelle coppie che, sostenendo un test di intelligenza, ottengono insieme un punteggio inferiore rispetto a quando rispondono da sole, come evidenziato da Laing, Phillipson e Lee,[25] ma anche per il gruppo (il “senatus mala bestia”). Una sorta di cointelligenza a resistere: “è possibile trovarsi completamente bloccati con questo tipo di pazienti quando essi hanno, per così dire, il sopravvento e si uniscono, sebbene inconsciamente, nelle loro resistenze”.[26]Queste resistenze possono assumere l’aspetto del conflitto. L’esperienza stessa del gruppo, è, come scrive Mills, conflitto, “una risposta ad una realtà in cui manca ciò di cui le persone hanno bisogno e che vorrebbero”, mentre per Hearn “l’essere gruppo emerge da conflitti tra i membri”, i quali creano quelli che per Ewbank sono i cinque problemi con cui i gruppi devono fare i conti: eliminazione dell’opposizione; sottomissione dell’opposizione; creazione di un’alleanza per sopraffare l’opposizione; raggiungimento di un compromesso con l’altra parte; integrazione di idee antagoniste in una nuova soluzione. Per Klein, infine, il conflitto è “conseguenza di desideri e paure dei membri in un particolare stadio dello sviluppo del gruppo. Il conflitto focale generalmente verte su questioni intorno all’autorità, al leader, e alle relazioni tra i membri”.[27]
La letteratura mette in evidenza la possibilità di creazione di capri espiatori, membri i cui bisogni confliggono con i bisogni del gruppo, dando l’ostracismo ai quali “il gruppo nel suo insieme attenua la tensione creata nel reprimere i conflitti e, per conto altrui, punisce ed esprime la propria disapprovazione per ciò che in realtà sente anch’esso ma gli è proibito ammetterlo”,[28] e che possono essere membri più vulnerabili che hanno fatto o detto ciò che è proibito rispetto alle norme approvate e che vengono creati dal gruppo per difendere la proiezione collettiva, oppure anche essere vittima delle energie distruttive dirette in realtà al conduttore.[29]
Così, sull’altro vertice della “scala del potere”, “spesso certi fattori pongono in posizione di preminenza membri che in realtà non sono qualificati per essa; forze analoghe impediscono ad altri membri di intervenire in modo fruttuoso, mentre in realtà sarebbero potenzialmente in grado di farlo”.[30]
Come scrive Klein, “il lavoro del conduttore è quello di aiutare i membri a capire il conflitto, in particolare come esso si correla all’atteggiamento regressivo che ha luogo contemporaneamente”, in quanto, sebbene sia attivo nell’immediato, i membri non sono coscienti di esso,[31]mentre per Foulkes “è essenziale che la situazione non venga presa sulla base delle apparenze secondo l’aspettativa normale, bensì che le reazioni nascoste vengano portate alla luce, vale a dire che la situazione va esplorata non come appare, ma come è realmente”[32]: nell’esempio citato da Luft, “un gruppo tenta di mettere a punto un ordine del giorno per un incontro. Vengono fatte parecchie proposte, ma tutti i tentativi per giungere ad un accordo sono vani. Più tardi i partecipanti capiscono che l’argomento reale di discussione non era l’ordine del giorno, ma una lotta per il controllo del potere nel gruppo”.[33]
Heap infine ci ricorda che “l’operatore deve aver nei riguardi del conflitto un atteggiamento serio, riflessivo e, soprattutto, imparziale. (…) Deve chiedere a se stesso che cosa il conflitto può rivelagli sui bisogni, sentimenti e comportamenti dei membri. Questa interpretazione determina il suo modo di aiutare il gruppo ad affrontare il conflitto e quindi la misura in cui esso può essere usato in modo costruttivo ai fini della crescita e del mutamento. E’ ovvio che tutto ciò presuppone che riesca ad avere un atteggiamento sereno nei confronti del conflitto, accettando sia la sua aggressività sia quella degli altri come una caratteristica inevitabile e costante della personalità umana. (…) Chiarire il proprio atteggiamento verso il conflitto e assumere un atteggiamento meno ansioso verso l’aggressività sono elementi importanti della capacità di lavoro di gruppo”.[34]
Ma più di tutto, sottolineiamo noi, il conduttore deve cogliere l’opportunità evolutiva che l’emergere del conflitto offre – per l’appunto, l’opportunità di cogliere bisogni, sentimenti e comportamenti e di muovere in direzione dell’archetipo sottostante. Come scrive Rogers: “è abbastanza strano, ma la prima espressione di un sentimento autenticamente significativo provato ‘qui e ora’ tende a estrinsecarsi in atteggiamenti negativi verso gli altri membri del gruppo o verso il leader. (…) E’ uno dei modi migliori per saggiare la libertà e l’affidamento del gruppo. E’ il gruppo realmente un posto sicuro o me la faranno pagare? Altro motivo, è che è molto più difficile e pericoloso esprimere i sentimenti profondamente positivi che non i negativi. Se dico di volerti bene, sono vulnerabile ed esposto alla più atroce reiezione. Se dico di odiarti, al più sono soggetto a un attacco dal quale mi posso difendere”.[35]
Il passaggio sta nel riconoscimento da parte dei membri del gruppo del proprio potere personale – il proprio axé-, quella proprietà di essere padroni di se stessi che rende vana ogni proiezione, vano ogni artificio di aggressività o di sottomissione per ottenere ciò di cui si ha bisogno. Chi conosce il proprio axé, conosce il proprio “potere di far accadere le cose” – di essere padrone del proprio sogno, non più burattino mosso dai fili dei sogni degli altri, passati o presenti. E’ dunque passo fondamentale nella direzione della fratria la scoperta del proprio potere personale, l'”io sono qui”, l'”io voglio e posso” liberati dai “no” della storia personale. Possiamo dunque fare un viaggio attraverso le gratificazioni nevrotiche che sostituiscono la presa del potere personale alla scoperta dei bisogni sommersi che queste gratificazioni coprono, per giungere infine nel dominio del proprio potere personale celato sotto quei bisogni: è la sua scoperta la risposta alla domanda del paziente, la cura reale del sintomo.
Voglio avere la vostra attenzione ma non posso semplicemente chiederla in modo adulto, perché così mi hanno detto, e dunque uso modi non adeguati per ottenerla i quali suscitano una reazione che mi fa stare male. Ma io – scopro ora con dolore – sono profondamente straziato dal fatto che il mio bisogno rimane insoddisfatto. E nel dare libera voce al mio bisogno, al mio strazio – con un pianto di rilascio che mi scuote fin nella profondità delle cellule, con un urlo che “rompe il cielo” -, ecco vedo emergere il mio potere personale, che era prigioniero nella gola, nella bocca dello stomaco. Ora io posso affermarmi, uno tra i pari, se lo voglio.
Se una simile esperienza può essere molto importante in una relazione terapeutica individuale, essa mostra tutto il suo potenziale in un lavoro di gruppo: perché potrò andare dalle persone qui e ora a mostrare le qualità del mio potere personale, e fare i conti con i frammenti d’Ombra che ancora permangono.
Moltitudine, setta, fratria: lo sviluppo del seme
Possiamo distinguere tre fasi nello sviluppo del “seme” che è lo Spirito del gruppo verso la sua piena liberazione – l'”albero perfetto”: lo stadio della moltitudine, lo stadio della setta, lo stadio della fratria. Queste tre fasi corrispondono allo stadio dell’Es, dell’Io e del Sé transpersonale dell’evoluzione del’individuo: si passa da una fase in cui l’identità del gruppo è in formazione, a una fase in cui è acquisita e però “sta stretta”, a una fase in cui è trascesa e il cerchio si mostra come riflesso microcosmico dell’Uno macrocosmico. Ognuna di questa fase presenta due aspetti, uno conservativo e uno di autotrascendenza: ogni nuova acquisizione ha bisogno da un lato di essere difesa, anche strenuamente, dall’altro di essere trascesa, come nel gioco cosmico tra conservazione e distruzione/creazione, i compiti affidati agli dei Vishnu e Shiva. Ognuna di queste fasi ha, in conclusione, a che fare con la risposta alla questione del potere personale, la quale si mostra innanzitutto nel confronto con il conduttore. La scelta attuata dai partecipanti è inizialmente tra sottomissione e ribellione. Ma “la risoluzione della dinamica verso l’autorità è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti per accedere alla dimensione transpersonale. Ci liberiamo dalla regola essendo in connessione con la regola universale. Potere ha chi riconosce l’agguato della regola che chiede o sottomissione o ribellione. Il potere c’è sempre. Lo stiamo usando o ce ne stiamo facendo usare? Chi lo sta usando, e come? In modo positivo o negativo? Di questo dobbiamo essere consapevoli”.[36]
Sottolineiamo che questa tripartizione si adatta sia all’andamento del gruppo dalla sua nascita alla sua fine, sia allo sviluppo della singola sessione, del singolo viaggio, e, all’interno del viaggio, alle singole fasi, in quanto ogni anello della “spirale” dell’evoluzione è composto a propria volta da spirali. La struttura macro si riproduce a livello micro, ciò che vale per la vita intera, i vari passaggi, vale per ogni sua fase, e all’interno di ogni fase, per ogni evento.
Moltitudine
E’ la fase definita come fase formativa, di preaffiliazione, di orientamento, di partecipazione esitante, caratterizzata fondamentalmente da incertezza e disorientamento, e dunque, come risposta ad essi, dal mantenimento delle norme e delle modalità di comportamento esterne, da dipendenza nei confronti del conduttore, da ansia e resistenza, così come da sentimenti e aspettative positivi, da curiosità. E’ una fase di difesa della propria identità, e insieme di aspettative quasi messianiche di “guarigione”.
“Nei primi incontri di gruppo, l’interazione è relativamente superficiale, l’ansia o la sensazione di minaccia sono piuttosto intense e l’interscambio tra i membri è artificioso e non spontaneo. Può anche capitare che idee o suggerimenti non vengano colti e non siano sviluppati e gli individui sembrano sentire o vedere relativamente poco di ciò che accade realmente”.[37]
Il gruppo assomiglia a una “moltitudine amorfa” in attesa di “ribellarsi o sottomettersi” al conduttore – potremmo anche definirla la fase del “totalitarismo”, in cui sono presenti solo due piani: la “base” sul fondo e il “leader” in alto –, una moltitudine la cui “direzione è a portata di mano di chi la vuole conquistare. Spesso sotto la passività imbarazzata della prima riunione ribollono tensioni e sentimenti. Si manifesta quindi una forte tendenza a lasciare la direzione informale ai partecipanti aggressivi, autoritari o forse eccessivamente attivi, considerati ‘la vita e l’anima della compagnia'”.[38]
Per Bennis e Shepard, questa fase si focalizza sulla “dipendenza, che è espressione del potere nelle relazioni. In questa fase i processi di gruppo sono relativi al modo in cui i membri di esso tentano di affrontare l’ineguale distribuzione del potere. I partecipanti saranno sottomessi e dipendenti? Alcuni saranno infastiditi dal conduttore e si confronteranno con altri membri invece che con lui direttamente? Troveranno, verosimilmente, modalità razionali d’intervento contro il conduttore e contro ogni possibile progresso utilizzando azioni di controdipendenza? (La persona controdipendente è in realtà dipendente e ‘va contro’ l’uno o l’altro a prescindere dalla posizione presa) (…) C’è una costante tensione alla costruzione della ‘struttura’ del gruppo ma gli sforzi per creare esplicite linee guida possono essere frustrati dai membri che sono avviluppati nella loro relazione con l’autorità. Una struttura implicita incomincia a prendere forma, tuttavia, non appena vengono definiti un minimo di regole e di limiti attraverso un parziale consenso e grazie all’emersione delle prime relazioni. In una prospettiva psicodinamica, le particolari qualità dei membri del gruppo detengono le chiavi della sua evoluzione. I membri con minori problemi nella loro esperienza con il potere e con l’amore possono aiutare il gruppo a lavorare sui processi di comunicazione. Chiarimento, ascolto, riflessione e comportamento supportivo sono elementi tipici della collaborazione e dell’aiuto che un membro del gruppo può dare a un altro. Il conduttore dovrebbe aiutare in questo modo il gruppo a valorizzarsi con la sua autorità e la sua esperienza creativa. E’ per questo che molti membri permettono poi al conduttore, di buon grado, di detenere nuovamente il potere. La regressione da un lato e l’iperassertività dall’altro diminuiscono non appena il gruppo comincia a capire che può migliorare i suoi processi di comunicazione usando le competenze dei suoi membri. Gli attacchi al conduttore possono continuare, così come le accuse d’incompetenza, rigidità, manipolazione e autoritarismo possono essere ancora presenti, ma il gruppo ha iniziato a cambiare. I membri stanno iniziando ad assumersi le proprie responsabilità relative al compito”.[39]
E dunque, come scrive Heap, “l’operatore, nella prima o nelle prime riunioni, può usare l’autorità di cui il gruppo lo investe per guidare i partecipanti all’esame delle proprie risorse”.[40]
Altre funzioni del conduttore in questa fase, per lo stesso autore, comprendono: 1) la ricerca di affinità; 2) il “chiarimento dell’accordo” ovvero l’istituzione, il sostegno o l’incoraggiamento di norme utili ai fini del gruppo; 3) la risposta alla stratificazione gerarchica tipica di questo stadio attraverso il favorire la formazione di una struttura aperta aiutando i membri passivi a essere più attivi, sollevando i membri dal ruolo di ‘portavoce del gruppo’ ed evitando lo scontro con i membri già dominanti, eventualmente affrontando la situazione indicando direttamente come un problema da risolvere l’irregolare distribuzione tra i membri dell’influenza e dell’iniziativa. A tale riguardo, scrive Heap, “proprio come è importante frenare questi membri dominanti, così lo è la funzione di stimolare i membri passivi che si definiscono ‘scoraggiati’. L’operatore userà ogni possibile opportunità per mostrare il suo interesse per i timidi interventi di questi e per incoraggiare gli altri a discuterne. Questo è un uso consapevole e costruttivo della sua posizione formale elevata nel gruppo, poiché il gruppo tende a considerare con rispetto le idee che egli mette in particolare rilievo. Ciò a sua volta innalza la posizione del partecipante fino ad allora inosservato e contribuisce a rendere più funzionale la struttura. Se i partecipanti in posizione di debolezza sono diventati così passivi da non concedergli alcuna opportunità di mostrare il suo riconoscimento, egli può aver bisogno di incoraggiarli più attivamente a intervenire. E’ bene che il suo comportamento si basi sull’evidente convinzione del valore e dell’importanza potenziale dell’intervento del partecipante piuttosto che sull’adulazione o il giudizio morale sulla sua inattività”.[41]
Come abbiamo visto, il ruolo del conduttore è fondamentalmente maieutico: attraverso la fiducia, l’ascolto empatico e convalidante, egli lascia spazio all’emergere delle qualità creative e dei talenti latenti sotto la maschera sociale dei partecipanti, attendendo con pazienza – “vuoto e sveglio” – che sotto la ribellione e la sottomissione affiori l’autoaffermazione autonoma, l’espressione del proprio potere personale, favorendo questa emersione attraverso varie pratiche.
Possono dunque essere utili i lavori con Oxossi, Ogun e Xangò, i lavori di contatto con la terra, con le proprie “radici”, l'”io esisto”, i lavori con i primi tre chakras, con le “palle”, con il “fuoco dello stomaco”, il fuoco dell'”io posso”. In generale, in questa prima fase sono fondamentali, per “scuotere l’albero” dell’energia primaria, la pratica della danza di Exù, i lavori di mobilizzazione energetica e “pulizia” – arte del dono di sé, in particolare massaggi di terra, di acqua e di aria – e, per riappropriarsi di spontaneità e “senso dell’inizio”, i lavori con le crianças; per quanto riguarda la scoperta e l’autoaffermazione del proprio potere personale nell’ambito specifico della sessualità, le pratiche di Pomba gira e di Exù veludu. In genere in questa fase può essere utile fare “riti grossi” per aprire i canali (uso del tamburo, “effetti speciali”) togliendo poi via via in direzione di quella “conduzione leggera” definita in precedenza.
E’ fondamentale, in conclusione, che i membri possano riconoscere da subito il proprio “diritto a esistere” nel gruppo, in quanto “il gruppo consente ai partecipanti un’esperienza di appartenenza che è molto importante per la costruzione (o ricostruzione) del senso di Sé come persona che ha diritto a vivere e occupare uno spazio affettivo. Molti pazienti non hanno visto adeguatamente riconosciuto tale diritto nell’ambito della famiglia durante l’infanzia. Per loro, il gruppo rappresenta una importante esperienza di appartenenza e di affermazione del loro diritto ad esistere”.[42]
Esistere nel gruppo, e non solo in relazione al conduttore: perché non persista la modalità totalitaria del “una moltitudine/un leader”, è utile favorire fin dall’inizio l’interscambio tra i membri, attraverso la loro presentazione al gruppo – tenendo sempre presente che nel presentarsi i partecipanti dicono qualcosa di più rispetto al semplice nome, che esprimono “la preoccupazione più pressante di ogni membro nel momento in cui entra nel gruppo. (…) Il membro indica indirettamente ciò di cui ritiene di avere bisogno” -,[43]attraverso un’azione o attività comune che richieda degli scambi o qualche esercizio o gioco più strutturato.
Questa fase è la fase della scoperta di un “nuovo mondo”, dell’assaggio di una nuova possibilità dell’essere – in un certo senso, della possibilità di essere, e di essere quel qualcosa che si è sempre avvertito di essere in realtà, nel profondo di sé, al di là del comportamento adottato per soddisfare le richieste della società: la propria vocazione, la propria forza, la propria energia, il proprio axé. E dunque in questa fase d’avvio è importante, come ci ricorda Marlene Silveira, che le persone “sentano che c’è qualcosa”, per acquisire quella fiducia necessaria per lasciare il “non più” ed affrontare il viaggio verso il “non ancora”.
Setta
E’ la fase in cui si realizza la presa di consapevolezza dell’esistenza e delle potenzialità elaborative del gruppo come soggetto collettivo, come comunità capace di pensiero.
E dunque in questa fase “il problema di ognuno dei partecipanti a un gruppo”, scrive Neri, “è crescere – ciò significa entrare a pieno titolo nel gruppo – senza perdere se stesso. Questo significa riuscire a fare prevalere la responsabilità individuale e collettiva e non il ‘gruppo-massa'”.[44]
I fenomeni di questo stato gruppale nascente, infatti, “abitualmente vengono sperimentati dalla persona che partecipa ad un piccolo gruppo come certa una perdita dei confini del Sé. Questo senso di perdita è accompagnato da un sentimento relativo ad un cambiamento nel proprio modo abituale di pensare e porsi in rapporto con la realtà circostante. Come se le sensazioni e le attese non fossero più localizzate, ma fossero invece diffuse in uno spazio comune e condiviso”.[45]
Potremmo chiamare questa fase “fase di neoindividuazione come membro del gruppo”, gruppo su cui il membro sposta la preservazione dell’identità, o anche come “fase del gruppo come illusione”. E’ la fase in cui viene trasferita al gruppo la propria “funzione pelle mentale”, la funzione confine, non più affidata ai singoli individui ma assunta in larga misura dal gruppo; è la fase dell'”illusione gruppale” che risponde a un desiderio di sicurezza in quel passaggio dal non più al non ancora, fase di preservazione dell’unità dell’Io minacciata spostata ora sul gruppo: alla minaccia al narcisismo individuale, la persona risponde, per dirla con Neri, instaurando un narcisismo gruppale, per il quale il gruppo, come oggetto-Sé ideale, mette a disposizione dei partecipanti una certa aliquota di “onnipotenza condivisibile e fruibile”. “Il gruppo trova così la sua identità, e nello stesso tempo l’unità rinarcisizzante di tutti nel seno del gruppo è affermata. Fare un gruppo, fare un buon gruppo: questo obiettivo costituisce uno spostamento difensivo rispetto al vero fine, ricercato e temuto, della formazione o della psicoterapia; la rimessa in questione di ciascuno personalmente. (…) L’illusione gruppale non va però considerata soltanto nei suoi aspetti negativi e di resistenza al lavoro analitico, ma anche come un modo per andare incontro all’esigenza dei membri del gruppo di stare insieme, quando manca ancora la capacità di stare in un rapporto: quando non si è capaci di stare insieme come un gruppo di persone che cooperano, si può tuttavia stare insieme come in un sogno. Da sveglio, ognuno andrebbe per la sua strada, ognuno parlerebbe una propria lingua incomprensibile agli altri. L’illusione gruppale ha dunque due facce. E’ la reazione a un’angoscia e a uno smarrimento totali, ma anche una condizione iniziale di nascita e di sviluppo”.[46]
E’ la fase in cui vengono “smontati” gli schemi percettivi, comunicativi e comportamentali individuali: “un lasciarsi cadere progressivo, senza sforzo o costrizione”. E’ anche il livello del Sé magico, “livello in cui l’intuizione sembra essere sostenuta dal tentativo di superare l’ansia di separazione, isolamento e solitudine. Essa si sviluppa sotto la spinta dell’anelito alla connessione con gli altri membri del gruppo di appartenenza, si caratterizza come una forma di sintonia con la coscienza collettiva ed è molto spesso accompagnata da pratiche e rituali destinati a promuovere la comunicazione tra i diversi membri del gruppo. Si tratta di quel fenomeno descritto in antropologia con il termine di participation mistique per la quale alcuni individui entrano in Transe collettivi riuscendo così a manifestare ossessioni collettive. Il limite evidente di questa forma di intuizione è che risulta strettamente vincolata al contesto culturale che la produce”.[47] Può dunque accadere che il contatto di uno dei membri con una zona d’ombra attivi ossessori degli altri membri, avviando così un processo di catarsi collettiva.
Il gruppo diventa in questa fase l’incubatrice, il letto di convalescenza nel passaggio tra l’abbandono di un’identità di noi costruita socialmente da altri e la scoperta progressiva della propria ghianda, delle proprie “radici in cielo” – la propria vocazione, il “volto che avevamo prima di nascere”. Un letto di sofferenza e di dolore, di ansia e timore, ma il letto in cui, attraverso il sudore, le lacrime e le urla, ci si “libera dal conosciuto” per incontrare finalmente ciò che in cuor proprio si è sempre saputo: se stessi.
Il gruppo diventa così un ponte, un fragile ponte di sogno sopra l’abisso.
Questa fase ha bisogno di protezione, di confini, che via via vengono posti e trascesi. Confini interni e confini esterni, caratteristica tipica della “setta”: “alcune terapie di gruppo sembrano mirare a un livello così elevato di coesione e di introspezione che il gruppo sembra trovarsi come in un vuoto sociale, solamente con la sua dinamica interna, le sue risorse e i suoi problemi”.[48]
Definita “fase di revisione”, “di potere e di controllo”, “di conflitto”, “di integrazione”, rispetto alla cultura del gruppo è una fase caratterizzata prevalentemente “dalle opposte tendenze a consolidare le norme e la struttura stabile nella prima fase e a ricercare i modi più efficaci di usare la situazione di gruppo. (…) Queste opposte tendenze provocano inevitabilmente tensioni e conflitti. La seconda fase è fortemente caratterizzata da queste tensioni e dalla necessità di scioglierle”.[49]
Il gruppo “sente” che deve passare oltre, che ne ha l’opportunità, che è questo ciò che chiede il “seme”, e dunque entra in una situazione di conflitto. Ma se da un lato è una fase segnata da aumento della frustrazione e dell’ostilità, conflitto, rivalità individuali, aggressione, dominio e ribellione, è parallelamente una fase di interazione di gruppo con primi cenni di fiducia, coesione e interdipendenza che nascono dal confronto favorito dal conflitto. Tolto il coperchio delle maschere “per bene” entriamo nel vivo di ciò che è celato sotto quelle maschere, del magma purulento in cui navigano le vere richieste, i veri bisogni, le vere emozioni.
In questa fase in cui “gli individui diventano un gruppo di lavoro”, avvengono, per Bennis e Shepard, “alcuni eventi caratterizzati da forte emotività perché i partecipanti sono disponibili emozionalmente a una sorta di ‘catarsi’. Si possono verificare forti scambi tra i membri del gruppo e il conduttore o tra i sottogruppi. Quale che sia la forza motivante, si procede verso una risoluzione attraverso una comunicazione migliore e più efficace e grazie all’espressione delle emozioni. Il gruppo in effetti si autocompiace, cura le divergenze, almeno per il momento, e si rivela ‘in armonia’. In questa fase le relazioni personali tra i membri dominano i processi. L’interazione tra i membri avviene su una base personale più diretta piuttosto che con una modalità associata ai ruoli. Nella prima fase l’individuo è visto come colui che rappresenta un ruolo, una classe o un gruppo etnico. Nella seconda è molto più probabile che i membri interagiscano come persone con emozioni e qualità uniche”.[50]
In questa fase le persone avvertono che la loro appartenenza al gruppo non è più in discussione, e divengono così più disponibili a mettersi in gioco; i temi di cui si parla si fanno più precisi e, rispetto al conduttore, questi viene percepito come meno rigido e distante, ma come più umano e vulnerabile. La dipendenza e il timore nei suoi confronti quindi diminuiscono, e se precedentemente c’era sempre attesa di un suo intervento, ora può essere “dimenticato” per lunghi momenti, e i partecipanti non si rivolgono solo più esclusivamente a lui, ma collocano i propri pensieri e interrogativi nel campo del gruppo.[51]
Per Heap come per Neri, il conduttore in questa fase ha un ruolo limitato e di sostegno, interviene soprattutto per impedire che il controllo normativo diventi repressivo e frenante.[52]
Il processo è avviato, la nave è salpata, lo Spirito la conduce dove deve, attraverso agguati da superare, nodi da sciogliere che emergono via via secondo la propria autonoma logica. Può essere utile favorire il processo, in questa fase, attraverso l’uso di pratiche che favoriscono la catarsi. Lavori di acqua, da un lato, con Oxum e Iemanjà; ma anche lavori di fuoco, con Xangò, nella direzione del “io posso”; confronto consapevole con l’altro – pratica delle maschere. Pratiche collettive centrate sul singolo membro in difficoltà in una fase di passaggio che favoriscano l’emersione dei materiali relegati nell’inconscio o nel corpo – captazioni collettive come nella pratica chiamata In viaggio per risvegliarsi, o attuazione psicodrammatica come in Vivere la visione. Trovata solida terra sotto i piedi, scoperto che “possiamo”, che abbiamo potere ed energia, ci permettiamo di affrontare i traumi, i dolori antichi, il rimosso, e possiamo farlo ad esempio “usando” gli altri membri del gruppo come “portavoce” di elementi della nostra storia personale. Così, se in un certo senso la prima fase corrisponde alla fase di Grof del passaggio per “immagini vaghe e sensazioni astratte, superficiali, nulla di profondo”, ora entriamo nel dominio dei “contenuti della storia personale o ancestrale – la storia familiare, ciò che duole nella pancia e nel cuore. Il conduttore si tiene comunque in disparte, attuando solo piccoli interventi di scioglimento di eventuali nodi – interventi di massaggio fisico, dei chakras, di suggerimento, riassestamento, correzione, stimolazione, provocazione, indirizzo – sempre minimizzando la propria presenza, perché “occorre muoversi molto lentamente/per non disturbare la Sorgente”.[53]
Nella prima fase abbiamo liberato l’energia necessaria per metterci in viaggio. Nella seconda abbiamo incontrato i nodi della nostra storia personale e, usando la prima energia, li abbiamo sciolti ottenendo così ulteriore energia. Armonizzati i chakras legati all’autoaffermazione e alla sopravvivenza (1° e 2°), abbiamo ora armonizzato quelli preposti alla vita di relazione, all’emozione, al portare nel mondo il proprio potere (3°, 4°). Entriamo, ora che la nostra vocazione prende a mostrarsi con sempre maggior insistenza, a inviarci lampi di noi, visioni del nostro destino, nel regno dell’autoespressione di Sé, nel dominio del 5° chakra, la gola, la voce, usando ora l’energia liberata dai limiti incontrati della storia personale per andare oltre, in direzione dell’archetipo. Prendiamo piano piano commiato dal gruppo-massa, dal gruppo setta, dal narcisismo gruppale: incontriamo noi stessi all’interno del gruppo, e non in contrapposizione ad esso né come funzione di esso. Iniziamo ad esprimere la nostra unicità ritrovata – un’unicità ora finalmente autentica, perché unicità della nostra reale vocazione – all’interno del cerchio dei fratelli liberi ed eguali: la fratria.
Fratria
Questa fase è stata definita della maturità, dell’intimità, della differenziazione, del raggiungimento, contraddistinta da progettualità, “produzione”, sentimenti positivi verso il conduttore, intimità, caldi sentimenti e coesione, interdipendenza e fiducia, elevato livello di appartenenza, intimità, integrazione. In essa, scrive Heap, “sono state superate le revisioni e i riallinementi della seconda fase. Anche se una tensione residua non potrà mai scomparire completamente, la lotta per il potere non dominerà più il gruppo e i membri riusciranno a utilizzarla efficacemente per i propri scopi specifici. Le risorse dei membri sono messe a disposizione, l’iniziativa è ben accolta e i livelli sono distribuiti in modo più regolare e democratico. Tutti i membri partecipano alla discussione e le decisioni sono prese da tutti, anche se non necessariamente in modo paritario. Le norme che servono agli scopi del gruppo sono accettate e, anche se si esercita un certo controllo, questo non è né così tirannico né così restrittivo come nella seconda fase. Il gruppo sembra accorgersi che, per facilitare la sperimentazione, la crescita e il cambiamento, è necessario un notevole grado di flessibilità. Perciò i membri accettano in maggior misura la loro individualità, e nello stesso tempo si crea una forte e valida coesione di gruppo (in particolare, coesione interpersonale e funzionale). La comunicazione è più aperta e diretta che mai. Il conflitto e la tensione, di origine sia interna che esterna, possono essere risolti senza gravi pericoli per la sopravvivenza del gruppo. I membri sono affidati al gruppo”.[54]
Moriamo qui come “figli” che demandano al gruppo-madre la responsabilità dell’identità, rinasciamo, dopo il “salto nel vuoto” di cui parla Grof, nella piena consapevolezza del nostro “posto del cerchio” – identificati, rinasciamo come fratelli tra fratelli che rispettano il “posto dell’altro” e che affermano il rispetto del proprio. Una rinascita iniziatica come “adulti”, una volta liberati dalle scorie dell’ego infantile, come nei riti di passaggio delle civiltà tradizionali.
In questa fase “il lavoro condotto per valorizzare le differenze individuali affrontando e risolvendo i conflitti, rafforza il gruppo come insieme. Può sembrare paradossale che la sintesi e l’integrazione di un gruppo possano essere basate sul riconoscimento di reali differenze individuali tra i suoi membri. Il tutto serve le parti e le parti servono il tutto, come un qualsiasi sistema di vita. Un gruppo maturo che soddisfa i bisogni dei singoli membri e allo stesso tempo quelli del gruppo. La comunicazione scorre facilmente e le correzioni sono possibili grazie a una maggiore apertura e consapevolezza”.[55]
E’ la fase per la quale possiamo usare il concetto di D. Stern di attunement,a indicare il “processo che porta allo stabilirsi di sintonia tra il neonato e la madre e al conseguente passaggio della comunicazione. L’attunement è una regolazione tale da preservare le caratteristiche individuali e capace nello stesso tempo di promuovere un funzionamento d’insieme. Ognuno può mantenere il modo di pensare che gli è proprio e che caratterizza la sua fase di sviluppo e contemporaneamente partecipare a una funzione d’insieme. L’idea di Stern più in particolare è che intensità affettiva, ritmo e tempo offrono una ‘interfaccia trans-modale’ capace di collegare (senza annullarne le differenze) strutture di pensiero diverse tra loro. Parlando di sintonia tra pensiero dell’individuo e pensiero del gruppo,” conclude Neri, “intendo riferirmi a qualcosa del genere”.[56]
Koestler usa il termine holon, per indicare la situazione in cui ogni elemento è sia parte che insieme. E’ questo il miracolo della sintesi nella seconda attenzione, dell’ampliare lo spazio della propria coscienza a qualcosa che trascende la mia “pelle” senza smarrire la mia individualità: sono me e sono anche te – te gruppo, te fratello. Sono separato e insieme inserito, individuato e insieme parte di qualcosa che mi trascende: sono io e sono un Io più grande di me. Il conflitto, pur necessario, ora si può dissolvere, ci si muove in un flusso senza ostacoli, senza nodi né attrito, si naviga finalmente il mare della coscienza oltre le colonne d’Ercole, oltre l’agguato di Scilla e Cariddi, in direzione del vello d’oro, del sacro Graal che è l’Uno, il ritorno alla “casa nel cielo”, l’orun.
In questo mare siamo alberi tra alberi, montagne tra montagne, re tra re senza “re dei re”. Siamo un cerchio, ognuno al suo posto, davanti all’Assoluto, “tutti figli di Dio”, qualunque sia la nostra storia. E dunque ora siamo in grado di accettare “pensieri che circolano” senza sentirci invasi, annullati o indebitamente influenzati, rendendoci disponibili per pensieri di altri facendo spazio dentro di noi, aprendo un tempo di attesa che non venga vissuto soltanto come vuoto e ansia.[57]“L’individuo che va verso una autorealizzazione acquista anche rispetto per l’integrità degli altri”:[58]essendo me stesso in autonomia, non ho più problemi ad accettare che tu sia te stesso. Non ho più necessità di controllarti e piegarti ad un copione di cui mi sono finalmente liberato, una visione del mondo distorta e nevrotica, ma posso affrontare a viso aperto, come il caboclo “Sette frecce” che agisce prontamente in modo adeguato e maturo rispondendo alla domanda qui e ora, un mondo che non è più un banale riflesso dei miei timori, delle mie speranze, delle mie proiezioni, in definitiva del mio passato, ma che è semplicemente ciò che è.
Siamo fratelli, ora, perché riconosciamo la fonte comune, l’Oceano di cui siamo onde, il Sole di cui siamo raggi, diversi punti di vista dello stesso Osservatore; siamo uguali, perché cessa ogni gerarchia, affettiva o di potere, nel momento in cui siamo null’altro che canali attraverso i quali l’amore ama, nel momento in cui ognuno ha “visto” il “dio che abita la sua testa” – cerchio degli dei; siamo liberi infine, perché ognuno serve questa sua propria vocazione senza più vivere un sogno che non sia quello del proprio Spirito finalmente liberato.
Abbeverandosi alla sacra fonte originaria, cessano ogni fame ed ogni sete, e ogni necessità di manipolare il mondo per ottenere amore, attenzione, cura. La luce si autoalimenta.
Ci spostiamo così verso i chakra superiori, il 6° e il 7°, nella dimensione transpersonale del sé, il luogo delle vocazioni, degli insight, del contatto con forze angeliche e spirituali. La pratica del “parlare efficace” illustrata in seguito conduce verso l’intuizione nel vuoto, nel silenzio della “mente che chiacchiera” verso la “mente nel cuore”. Indicati in questa fase sono rituali collettivi di passaggio quali il “tunnel della nascita”, per esempio, nonché lavori con Iansà, Preto velho, Oxalà, e tutti i lavori in cui il cerchio viaggia insieme nella luce e che favoriscono il contatto con il piano astrale, cristico, la devozione.
Per quanto riguarda il ruolo del conduttore, “giunto a questa fase dovrebbe aver abbandonato la sua posizione di ‘persona centrale’ nei limiti permessi dalle basilari capacità del gruppo”.[59]Pertanto assumerà un atteggiamento il più riservato possibile per non “disturbare la sorgente”, aumentando oltretutto così la consapevolezza collettiva del gruppo della propria abilità, ed eventualmente intervenendo laddove si crei timore per una stasi o regressione temporanea, facendo sì che il gruppo le accetti come una caratteristica normale della sua evoluzione – due passi avanti, uno indietro!
La sua funzione di “porta”, di “agguato del potere” cui sottomettersi o ribellarsi è esaurita, siamo nella fase della compiuta anarchia, nel senso di assenza di arconti, di tiranni, interiori ed esterni, una fase che non necessita di una normazione che non sia quella dello Spirito, il quale “soffia dove vuole”: abbiamo messo regole solo ed esclusivamente per trascenderle. E dunque il conduttore può ora navigare l’oceano della coscienza insieme ai fratelli, libero ed eguale, membro paritario del cerchio, “una testa un voto”, in connessione con lo Spirito.
Oltre la fratria
“L’ori oke, ati petele, a nlo si afin oba rere, a o wa dele mimo, a o si wa a deleto lewa. Questo significa: se continuiamo a cercare, a cercare, la mèta del nostro viaggio sarà un posto più ‘fresco’ dove avremo una buona testa, dov’è sacro, dov’è tranquillo”.[60]
Trascesi i limiti della “pelle” degli individui, nella gioia dell’estasi condivisa il cerchio trascende ora anche i limiti della “pelle del gruppo”, la sua coscienza si amplia fino al Tutto. Sono io, sono io-gruppo, sono io-Tutto. Il cerchio è ora il riflesso microcosmico della matrice macrocosmica, il Cerchio, lo Zero. Il cerchio dei fratelli si trascende nella fratria universale, quello “stato di gioiosa unione ed empatica partecipazione alla vita universale, risultata dal riassorbimento del’individualità in una totalità cosmica che ha l’essenza del bene e della perfezione”[61]– la Coscienza unitiva, cosmica, olistica, universale.
Riconosco allora che gli altri membri del cerchio sono compagni di viaggio nel navigare della coscienza, viaggiatori delle stelle, riflessi di me e io riflesso di loro, tutti riflessi, ognuno nella propria irripetibilità, dell’Unica Luce.
Possiamo uscire nel mondo, custodendo il cerchio nel cuore, sapendo che non è che simbolo dell’infinito Cerchio che potremo incontrare in ogni sguardo, in ogni agguato, in ogni frammento di vita, consapevoli che
“tu pensi di stare appena cominciando, tu senti che stai ancora iniziando. E anche nel momento della tua morte, sentirai che deciderai di voler continuare. Non sarai sicuro di aver cercato abbastanza. E anche alla tua morte, quando ti sarai ritrovato nel luogo del riposo, nel luogo più fresco, sentirai che lascerai che la ricerca venga continuata con quelli che la vorranno raccogliere da te. Ti inviteranno e diranno che ci si aspetta che tu continui. La ricerca continua”.[62]
Tratto da Tomati C., (2007), Il Cerchio che Cura, ed. Om
[1] J. Luft, op. cit., pag. 87
[2] C. Neri, op. cit., pag. 15
[3] ibid, pag. 22
[4] S. H. Foulkes, op. cit., pag. 19
[5] Comunicazione di P. Lattuada al corso di formazione di Ompio, ottobre 2001
[6] J. Luft, op. cit., pag.25 e 27
[7] K. Heap, op. cit., pag. 136 e 145
[8] ibid, pag. 145
[9] D. Cinti, in C. Neri, op. cit., pag. 59
[10] ibid. pag. 62
[11] ibid. pag. 63
[12] Don E. Kash, Perpetual Innovation, 1989
[13] Thomas Armstrong, 7 Kinds of Smart, p. 8
[14]M. Thompson Drewal, op. cit., pag. 37
[15] ibid, pag. 34
[16] S. H. Foulkes, op. cit., pag. 146
[17]C. Neri, op. cit., pag. 161
[18] ibid. pag. 163
[19] S. H. Foulkes, op. cit.,. pag. 30
[20] C. Neri, op. cit., pag. 163
[21] ibid. pag. 132 e 164
[22] ibid. pag. 13
[23] C. Neri, op. cit., pag. 16
[24] J. Luft, op. cit., pag. 51 e 66
[25] ibid, pag. 112
[26] S. H. Foulkes, op. cit., pag. 64
[27] Cit. in J. Luft, op. cit., pag. 35, 36, 37 e 19
[28] K. Heap, op. cit., pg. 122
[29] Vedi S. H. Foulkes, op. cit., pag. 171
[30] K. Heap, op. cit., pag. 128
[31] J. Luft, op. cit., pag. 19
[32] S. H. Foulkes, op. cit., pag. 19
[33] J. Luft, op. cit., pag. 21
[34] K. Heap, op. cit., pag. 149
[35] C. Rogers, op. cit., pag. 24
[36] Comunicazione di P. Lattuada al corso di formazione di Ompio, gennaio 2002
[37] J. Luft, op. cit., pag. 90
[38] K. Heap, op. cit., pag. 69
[39] J. Luft, op. cit., pag. 48
[40] K .Heap, op. cit., pag. 68
[41] ibid, pag. 130
[42] C. Neri, op. cit., pag. 144
[43] K. Heap, op. cit., pag. 72
[44] C. Neri, op. cit., pag. 171
[45] ibid. pag. 46
[46] ibid, pag. 45
[47] P. L. Lattuada, Oltre la mente, Franco Angeli, Milano.
[48] K. Heap, op. cit., pag. 150
[49] ibid. pag. 162
[50] J. Luft, op. cit., pag. 49
[51] C. Neri, op. cit., pag. 52
[52] K. Heap, op. cit., pag. 163
[53] Insight condiviso da Matteo durante un gruppo del giovedì.
[54] K. Heap, op. cit., pag. 168
[55] J. Luft, op. cit., pag. 61
[56] C. Neri, op. cit., pag. 106
[57] ibid, pag. 105
[58] J. Luft, op. cit., pag. 173
[59] K. Heap, op. cit., pag. 168
[60] M. Thompson Drewal, op. cit., pag. 35
[61] L. Boggio Gilot, op. cit., pag. 16
[62] M. Thompson Drewal, op. cit., pag. 35